Ricorso della Regione Lombardia (c.f.  80050050154),  in  persona
del  Presidente  della  Giunta  regionale  pro-tempore,  on.  Roberto
Formigoni, rappresentata e difesa,  ai  sensi  della  delibera  della
Giunta regionale n. IX/2490 del 14 novembre 2011,  giusta  procura  a
margine del presente atto,  dal  prof.  avv.  Beniamino  Caravita  di
Toritto (c.f. CRVBMN54D19H501A), del libero  foro,  ed  elettivamente
domiciliata presso il suo studio in Roma, via di Porta Pinciana n.  6
(fax: 06/42001646; pec abilitata: cdta@legalmail.it); 
    Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri  pro-tempore  per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale (degli articoli  14
e 16 del  decreto-legge  13  agosto  2011,  n.  138,  convertito  con
modificazioni nella legge  14  settembre  2011,  n.  148,  avente  ad
oggetto «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione  finanziaria
e per lo sviluppo»,  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  -  serie
generale - n.  216  del  16  settembre  2011,  per  violazione  degli
articoli 117, commi 3 e 4, 119, 120, 122, 123 e 133, comma  2,  della
Costituzione. 
 
                              F a t t o 
 
    Con d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, il Governo ha inteso adottare
una serie di disposizioni per la stabilizzazione finanziaria e per il
contenimento della spesa pubblica al fine di garantire la  stabilita'
del Paese  con  riferimento  alla  eccezionale  situazione  di  crisi
economica internazionale e di instabilita' dei mercati, anche al fine
di rispettare gli impegni assunti in sede di Unione europea,  nonche'
di adottare misure dirette a favorire lo sviluppo e la competitivita'
del Paese e il sostegno all'occupazione. Il  decreto  costituisce  un
intervento normativo di vasta portata, diviso in quattro titoli:  nel
primo sono comprese disposizioni per la stabilizzazione  finanziaria,
nel secondo norme in materia di liberalizzazioni,  privatizzazioni  e
altre misure per incentivare lo sviluppo, nel terzo titolo  misure  a
sostegno dell'occupazione e, infine, nel quarto titolo trovano spazio
norme relative alla riduzione dei costi degli apparati istituzionali. 
    Il  decreto-legge  n.  138  e'  stato  convertito,  con  numerose
modificazioni, dalla legge 14  settembre  2011,  n.  148,  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 216 del  16  settembre
2011. 
    In particolare, tra i vari emendamenti  apportati  all'originaria
formulazione, la suddetta legge di conversione ha  modificato  l'art.
14, avente  ad  oggetto  «Riduzione  del  numero  dei  consiglieri  e
assessori regionali e relative indennita'. Misure premiali». 
    In  ragione  di  finalita'  di  conseguimento   degli   obiettivi
stabiliti nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica,  tale
disposizione condiziona la collocazione delle regioni nella classe di
enti territoriali piu' virtuosa prevista dall'art. 20, comma  3,  del
d.l. n. 98/2011 (convertito dalla legge n. 111/2011), all'adeguamento
dei rispettivi ordinamenti ad una serie di particolari parametri. 
    Il richiamato art. 20, comma 3, del d.l. n. 98/2011 ha  previsto,
nell'ambito della definizione del nuovo Patto di stabilita'  interno,
una serie di meccanismi premiali in favore  degli  enti  territoriali
che conseguano determinati parametri di virtuosita', con  particolare
riferimento alla ripartizione del concorso alla  realizzazione  degli
obiettivi di finanza pubblica fissati. 
    Al  fianco  dei  suddetti  parametri  di  virtuosita',   inerenti
precipuamente   al   conseguimento    di    obiettivi    di    natura
economico-finanziaria, quali ad  esempio  la  convergenza  tra  spesa
storica e costi e fabbisogni  standard,  il  rispetto  del  patto  di
stabilita', ovvero l'autonomia finanziaria, l'art.  14  del  d.l.  n.
138/2011, come modificato dalla legge di conversione n. 148/2011,  ha
introdotto una serie di ulteriori parametri, la  cui  portata  -  sia
consentito osservare  fin  da  subito  -  trascende  da  un  contesto
specificamente finanziario. 
    In particolare, ai fini del  godimento  dei  meccanismi  premiali
previsti dal citato art. 20,  oltre  al  rispetto  delle  indicazioni
previste  da  tale  disposizione,  le   regioni   sono   ora   tenute
all'adeguamento  dei  propri  ordinamenti   ai   seguenti   ulteriori
parametri: 
        a) previsione di un numero massimo di consiglieri  regionali,
escluso il Presidente della Giunta, non superiore a 20 per le regioni
con popolazione fino ad un milione di abitanti; a 30 con  popolazione
fino a due milioni; a 40 con popolazione fino a quattro milioni; a 50
con popolazione fino a sei milioni; a 70 con popolazione fino ad otto
milioni; a 80 con popolazione superiore ad otto milioni di  abitanti.
La riduzione del numero dei consiglieri regionali deve avvenire entro
sei mesi dall'entrata in vigore del decreto legge ed essere  efficace
dalla prima legislatura regionale successiva a quella  in  corso.  Le
regioni che, abbiano un numero  di  consiglieri  inferiore  a  quello
previsto dal decreto, non possono aumentarlo; 
        b) previsione di un numero massimo di assessori non superiore
ad  un  quinto  del  numero  dei  consiglieri   (con   arrotondamento
all'unita' superiore). La riduzione deve  essere  operata  entro  sei
mesi dall'entrata in vigore della  disposizione  ed  essere  efficace
dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso; 
        c) riduzione degli  emolumenti  e  delle  utilita',  comunque
denominati, a  favore  dei  consiglieri  regionali  entro  il  limite
dell'indennita' massima spettante  ai  membri  del  Parlamento,  come
rideterminata dall'art. 13 del medesimo d.l. n. 138/2011,  a  partire
dal 1° gennaio 2012; 
        d) commisurazione del trattamento economico  dei  consiglieri
regionali  all'effettiva  partecipazione  ai  lavori  del   Consiglio
regionale; 
        e) istituzione, dal 1°  gennaio  2012,  di  un  Collegio  dei
revisori dei conti,  quale  organo  di  vigilanza  sulla  regolarita'
contabile, finanziaria ed economica della gestione regionale, che, ai
fini del coordinamento della finanza pubblica, opera in raccordo  con
le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti; 
        f) passaggio, entro sei mesi  dall'entrata  in  vigore  della
disposizione  e  con  efficacia  dalla  prima  legislatura  regionale
successiva a quella in corso, al sistema  previdenziale  contributivo
per i consiglieri regionali. 
    Interessato da numerose modificazioni da  parte  della  legge  di
conversione n. 148/2011 e' stato anche l'art. 16, il  quale  contiene
misure volte alla riduzione dei costi  relativi  alla  rappresentanza
politica nei comuni e  alla  razionalizzazione  dell'esercizio  delle
funzioni comunali, nell'affermato perseguimento  delle  finalita'  di
conseguimento  degli  obiettivi  di  finanza  pubblica,  di  ottimale
coordinamento della finanza pubblica,  di  contenimento  delle  spese
degli enti territoriali e  di  migliore  svolgimento  delle  funzioni
amministrative e dei servizi pubblici. 
    Il comma 1 della previsione in oggetto dispone che,  a  decorrere
dalla  proclamazione   degli   eletti   negli   organi   di   governo
successivamente al 13 agosto 2012, i comuni con popolazione inferiore
a  1.000  abitanti  -  salvo  quelli  il  cui   territorio   coincida
integralmente con quello di una o piu' isole, nonche'  il  comune  di
Campione d'Italia - esercitano obbligatoriamente in  forma  associata
tutte le funzioni amministrative e tutti  i  servizi  pubblici,  loro
spettanti sulla base della legislazione vigente,  mediante  un'unione
di comuni ai sensi dell'art. 32 d.lgs. n. 267/2000. 
    I successivi commi, da 2 a 16, disciplinano puntualmente l'unione
obbligatoria prevista dal comma 1. E' tra l'altro  previsto  che,  ai
sensi del successivo comma 6, la popolazione residente nel territorio
dell'unione istituenda deve essere superiore a 5.000 abitanti, ovvero
3.000 abitanti se i comuni membri appartengano o siano appartenuti  a
Comunita' montane. Entro due mesi dall'entrata in vigore della  legge
di conversione del d.l. n. 138/2011, ciascuna regione ha facolta'  di
individuare diversi limiti demografici. 
    Alle suddette unioni hanno facolta' di aderire anche  comuni  con
popolazione superiore a 1.000 abitanti,  al  fine  di  esercitare  in
forma associata  le  sole  funzioni  fondamentali,  ovvero  tutte  le
funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla  base  della
legislazione vigente (comma 2). 
    Il successivo comma 8 prevede che, entro sei mesi dall'entrata in
vigore, i comuni interessati avanzino alla regione  una  proposta  di
aggregazione per l'istituzione  della  rispettiva  unione.  Entro  il
termine perentorio del 31  dicembre  2010  e'  poi  previsto  che  la
regione provveda a sancire  l'istituzione  di  tutte  le  unioni  del
proprio territorio, anche qualora la proposta di aggregazione  manchi
o non sia conforme a quanto prescritto. 
    Il   richiamato   articolo   provvede,   poi,   a    disciplinare
l'organizzazione e le modalita' di funzionamento delle suddette forme
associative. In particolare, si prevede  che,  alla  data  della  sua
istituzione, l'unione  succede  a  tutti  gli  effetti  nei  rapporti
giuridici in essere inerenti alle  funzioni  e  ai  servizi  ad  essa
affidati, con trasferimento della totalita'  delle  relative  risorse
umane e strumentali (comma 5). 
    Il comma 9, inoltre,  recisamente  dispone  che,  contestualmente
all'istituzione delle unioni, gli organi di governo dei comuni  parte
dell'unione sono solo il sindaco ed il consiglio comunale, mentre  le
giunte in carica decadono di diritto. 
    Le  richiamate  disposizioni  del  decreto  violano   l'autonomia
regionale nella determinazione della propria forma  di  governo  e  i
principi costituzionali in materia di  coordinamento  finanziario,  i
quali, pur attribuendo allo Stato un  consistente  potere  di  guida,
garantiscono al tempo stesso - all'interno di quel potere di guida  -
le autonome determinazioni di ciascuna regione  nell'esercizio  della
propria autonomia di spesa. Gli artt. 14 e 16 del d.l.  n.  138/2011,
convertito con  modificazioni  dalla  legge  n.  148/2011,  risultano
quindi gravemente lesivi delle prerogative della  Regione  Lombardia,
in quanto viziati da manifesta illegittimita'  costituzionale  per  i
seguenti motivi; 
 
                            D i r i t t o 
 
Premessa. 
    Una tesi tradizionale, diffusa, affascinante,  ma  fortunatamente
mai accolta, afferma che la vera fonte del decreto-legge non  sia  da
ritrovare nell'art. 77 Cost., bensi' direttamente nell'emergenza come
situazione che  legittima  interventi  normativi  extra  ordinem.  In
questa ricostruzione la legge di conversione assume il ruolo di  bill
di indennita', che scarica il Governo dalla responsabilita' derivante
da provvedimenti assunti anche ultra vires. 
    Pur respinto dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza,
questo modello ogni tanto riemerge nella prassi politica: l'emergenza
legittimerebbe interventi extra ordinem e ultra vires, che  sarebbero
poi «salvati» dalla  legge  parlamentare,  nonostante  la  violazione
delle regole costituzionali. 
    Nonostante  la  suggestione,  questo  modello  va  respinto.  Pur
ipotizzando che un tal genere di argomentazioni possa trovare  spazio
di discussione teorica con riferimento, ad esempio, ai  requisiti  di
necessita' ed urgenza, la cui eventuale mancanza potrebbe essere  poi
«sanata» dall'assunzione  di  responsabilita'  politica  operata  dal
parlamento con l'approvazione della legge di conversione, giammai  un
siffatto  modo  di  argomentare  potrebbe  giustificare  la  radicale
violazione di principi costituzionali, che di certo non  puo'  essere
«ratificata» da alcuna legge di conversione. 
    Ed e' per far valere il rispetto di tali principi costituzionali,
relativi alle prerogative di  autonomia  regionale,  che  la  Regione
Lombardia ha deciso di impugnare il d.l. n. 138/2011. 
    1. - Illegittimita' dell'art. 14 e dell'art.16, del decreto-legge
n.  138  del  2011,  convertito  con  modificazioni  dalla  legge  di
conversione n. 148 del 2011, per  contrasto  con  gli  articoli  117,
commi 3 e 4, e 119 Cost. 
    In via del tutto preliminare, sia  consentito  precisare  che  la
formulazione apparentemente facoltizzante del combinato  disposto  di
cui all'art. 14, comma 1, d.l. n. 138/2011 e all'art. 20, commi  2  e
3, d.l. n. 98 del 2011, non attenua,  in  alcun  modo,  la  lesivita'
delle competenze regionali costituzionalmente  garantite.  Del  tutto
errato sarebbe ritenere che l'art. 14,  comma  1,  lascia  libere  le
regioni di adeguarsi ai parametri ivi previsti. La non adesione delle
regioni a tali previsioni  -  infatti  -  determinerebbe  il  mancato
godimento  delle  cd.  misure  premiali  e  si   tradurrebbe   quindi
nell'obbligo per le regioni di farsi carico di oneri straordinari per
il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, nonostante  il
possesso di indici di  virtuosita'  che  gia'  da  soli  testimoniano
l'ampio contributo dato al conseguimento di tali obiettivi. 
    Il comma 1 dell'art. 14, aggravando  i  parametri  gia'  previsti
dall'art. 20, del d.l. n. 98 del 2011 (come convertito dalla legge n.
111 del 2011) obbliga («debbono») le regioni gia' in possesso di ampi
requisiti  di  «virtuosita'»  -   precedentemente   individuati   dal
legislatore  nazionale  (nel  d.l.  n.  98/2011)   come   idonei   ad
«esonerare» dalla «realizzazione degli obiettivi di finanza  pubblica
fissati,  a  decorrere  dall'anno  2012,   dal   comma   5,   nonche'
dall'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010» (art. 20, comma 3,
d.l. n. 98/2011) - ad adottare nuove stringenti misure  che  incidono
in modo illegittimo non solo su voci di spesa, ma sull'ordinamento  e
sulla forma di governo  della  regione,  in  modo  gravemente  lesivo
dell'autonomia che la Costituzione assegna alle regioni. 
    Parimenti, con riferimento  al  successivo  art.  16,  l'invocato
richiamo  alla  finalita'  di  «assicurare  il  conseguimento   degli
obiettivi di finanza pubblica, l'ottimale coordinamento della finanza
pubblica, il contenimento delle spese degli enti  territoriali  e  il
migliore svolgimento delle  funzioni  amministrative  e  dei  servizi
pubblici» non puo' certo ritenersi elemento sufficiente ad  escludere
la manifesta violazione delle competenze regionali costituzionalmente
riconosciute. 
    Invero, del tutto palese e' la violazione da parte dell'art. 14 e
dell'art. 16 del riparto di competenze di cui all'art. 117,  commi  3
(in relazione alla materia di legislazione concorrente«armonizzazione
dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica») e 4 (in
relazione alle competenze regionali esclusive residuali). 
    E' opportuno da subito  affermare  che  il  titolo  competenziale
ripetutamente invocato dal legislatore statale, gia'  a  partire  dal
preambolo  del  decreto   («disposizioni   per   la   stabilizzazione
finanziaria e per il contenimento della spesa  pubblica»),  non  vale
certamente a rendere conforme l'intervento legislativo qui contestato
ai parametri costituzionali impropriamente evocati. Come chiarito  da
codesta ecc.ma Corte, infatti, «e'  costante  l'orientamento  secondo
cui,  ai  fini  del  giudizio  di  legittimita'  costituzionale,   la
qualificazione legislativa non vale  ad  attribuire  alle  norme  una
natura diversa da quella ad esse propria, quale  risulta  dalla  loro
oggettiva sostanza» (sent. n.  169  del  2007  e  le  ivi  richiamate
sentenze  n.  447  del  2006  e  n.  482  del  1995);  inoltre   «per
l'individuazione della materia alla quale devono essere  ascritte  le
disposizioni oggetto di censure, non assume rilievo la qualificazione
che  di  esse  da'  il  legislatore,  ma  occorre  fare   riferimento
all'oggetto ed alla disciplina delle medesime» (sent. n. 237 del 2009
e le ivi citate sentt. n. 430 e n. 165 del 2007). 
    Cio'  chiarito,  occorre  osservare  come  la  giurisprudenza  di
codesta ecc.ma Corte abbia, nel tempo, costantemente affermato che la
finalita' del contenimento  della  spesa  pubblica  corrente  rientra
nella finalita' generale del coordinamento finanziario (sentt. n.  27
e n. 156 del 2010, n. 237 e n. 284 del 2009, n.  159  e  n.  289  del
2008, n. 417 del 2005 e n. 4 del 2004). Pertanto sono stati  ritenuti
legittimi interventi del legislatore statale volti  ad  imporre  alle
regioni vincoli alle politiche di bilancio - anche se  indirettamente
incidenti  sull'autonomia  regionale  di  spesa  -  per  ragioni   di
coordinamento finanziario a salvaguardia, attraverso il  contenimento
della spesa corrente, dell'equilibrio unitario della finanza pubblica
complessiva,  in  connessione  con  il  perseguimento  di   obiettivi
nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (cfr. sentt.  n.
237 e n. 284 del 2009).  Altresi'  chiaro,  nella  giurisprudenza  di
codesta ecc.ma Corte, e' l'esistenza nell'ordinamento di un  «obbligo
generale di tutte le  regioni  (...)  di  contribuire  all'azione  di
risanamento della finanza pubblica» (sent. n. 289 del 2008, e le  ivi
richiamate sentt. n. 190 del 2008, n. 82 e n. 169 del 2007). 
    Di conseguenza,  in  linea  generale  puo'  osservarsi  come  sia
riservata alla potesta' statale  la  sola  previsione  di  un  limite
complessivo di spesa che faccia salva un'ampia discrezionalita' degli
enti territoriali nell'allocazione delle risorse tra i diversi ambiti
e obiettivi di spesa e nella scelta, ai fini del rispetto dei  limiti
di spesa, di eventuali tagli. 
    Di contro, e' pacificamente preclusa la possibilita' di vincolare
le regioni all'adozione di  misure  analitiche  e  di  dettaglio  che
illegittimamente comprimerebbero l'autonomia  finanziaria  di  queste
ultime. 
    In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha chiarito espressamente  che
«norme statali che fissano limiti alla spesa delle  regioni  e  degli
enti   locali   possono   qualificarsi   principi   fondamentali   di
coordinamento  della   finanza   pubblica   alla   seguente   duplice
condizione: in primo luogo, che si  limitino  a  porre  obiettivi  di
riequilibrio della medesima,  intesi  nel  senso  di  un  transitorio
contenimento  complessivo,  anche  se  non  generale,   della   spesa
corrente; in secondo luogo,  che  non  prevedano  in  modo  esaustivo
strumenti o modalita' per il perseguimento  dei  suddetti  obiettivi»
(sent. n. 237 del 2009, citata; in senso conforme, sent. n.  341  del
2009). 
    Conformemente ai principi appena richiamati, la sent. n.  27  del
2010 pur salvando dalla declaratoria  di  incostituzionalita'  l'art.
76,  comma  6-bis,  d.l.  n.  112/2008,  convertito  dalla  legge  n.
113/2008, che disponeva la riduzione dei trasferimenti erariali  alle
comunita' montane per gli anni 2009-2011, ritenendo  che  tale  norma
fosse  effettivamente  espressione  di  principi  fondamentali  della
materia  del  coordinamento  della  finanza  pubblica,  ha  viceversa
stabilito che la previsione di un criterio quantitativo  rigido  (nel
caso di specie altimetrico), quale strumento  di  individuazione  dei
soggetti per i quali attuare la riduzione dei trasferimenti suddetti,
esorbita  dai  limiti  della   competenza   statale   di   principio,
contrastando pertanto con il riparto di competenze previsto dall'art.
117, comma 3, Cost. 
    Sotto diverso profilo, la Corte, con sent. n. 289  del  2008,  ha
giudicato la legittimita' dell'art. 22, comma 1,  d.l.  n.  223/2006,
che ha previsto la riduzione del 10% degli stanziamenti per i consumi
intermedi degli enti pubblici  non  territoriali  relativi  al  2006,
ritenendo che in tal caso il legislatore statale abbia legittimamente
perseguito  «generali  obiettivi  di   riequilibrio   della   finanza
pubblica, incidendo temporaneamente su una complessiva e  non  minuta
voce di spesa», lasciando al contempo liberi gli enti destinatari  di
individuare le misure necessarie  al  contenimento  della  spesa  per
consumi intermedi. 
    Peraltro, dall'esame della giurisprudenza  costituzionale  sembra
possibile  desumere  alcune  ulteriori   indicazioni   di   rilevante
significato per quanto qui di interesse. 
    In particolare, con la citata sent.  n.  289  del  2008,  codesta
ecc.ma Corte  ha  avuto  modo  di  pronunciarsi  sulla  questione  di
legittimita' costituzionale proposta  dalla  Regione  Veneto  avverso
l'art. 29 del d.l. n. 223/2006, il quale prevedeva, a  decorrere  dal
2006, la riduzione del 30% della spesa complessiva sostenuta nel 2005
dalle amministrazioni pubbliche per  il  funzionamento  degli  organi
collegiali, disponendo l'adozione di una serie di misure dettagliate.
Codesta  ecc.ma  Corte  ha  dichiarato  inammissibile   la   suddetta
questione in quanto l'articolo censurato prevedeva  espressamente  la
non diretta applicazione delle disposizioni  suddette  alle  regioni,
rispetto alle quali le disposizioni stesse costituivano  principi  di
coordinamento della  finanza  pubblica.  In  tal  senso,  il  giudice
costituzionale ha espressamente affermato che «i precetti specifici e
puntuali previsti dalla disposizione denunciata  non  si  riferiscono
alle regioni, le quali, mentre  sono  tenute  a  rispettare  il  solo
obiettivo finanziario globale da essa  disposto,  sono  libere  nello
stabilire strumenti e modalita'  per  il  conseguimento  dello  scopo
divisato dal legislatore statale». 
    E' pertanto del  tutto  palese  che  disposizioni  puntuali  come
quelle di cui all'art. 14, comma 1, che prescrivono: 
        a) la riduzione del numero dei consiglieri regionali  secondo
parametri stabiliti dal decreto in  base  al  numero  degli  abitanti
della regione; 
        b) la corrispondente riduzione del numero degli assessori; 
        c) la riduzione degli emolumenti  dei  consiglieri  regionali
entro il limite  dell'indennita'  massima  spettante  ai  membri  del
Parlamento; 
        d) la correlazione tra  indennita'  dei  consiglieri  e  loro
effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio; 
        e) la istituzione di un Collegio dei revisori dei conti; 
        f) il passaggio al sistema previdenziale contributivo  per  i
consiglieri regionali, non stabiliscono certo principi, ma  piuttosto
indicano misure rigidamente  predefinite  che  non  lasciano  margine
alcuno  alle  regioni  in   ordine   alle   modalita'   di   autonomo
conseguimento degli obiettivi. 
    Dall'analisi delle singole previsioni, emerge con  chiarezza  che
le stesse non risultano compatibili con la duplice condizione cui  la
giurisprudenza costituzionale subordina la  riconducibilita'  di  una
norma statale a principio di coordinamento della finanza pubblica. 
    In  primo  luogo,  le  misure  disciplinate   non   si   limitano
all'individuazione di obiettivi  volti  al  transitorio  contenimento
complessivo della spesa corrente, in quanto non risulta  indicato  un
limite temporale di efficacia delle singole riduzioni  di  spesa.  In
secondo luogo, non e' soddisfatto neanche il requisito relativo  alla
garanzia  della  discrezionalita'  regionale   nella   scelta   degli
strumenti e delle modalita' di perseguimento degli obiettivi posti  a
livello statale: l'applicazione delle misure  di  contenimento  della
spesa pubblica, infatti, non e' certamente modulabile da parte  delle
singole regioni. 
    Orbene, alla stregua del costante insegnamento di codesta  ecc.ma
Corte, tali misure non potrebbero che intendersi applicabili solo con
riferimento ai limiti di spesa, e dovrebbero invece  lasciare  libere
le regioni  di  individuare  gli  strumenti  mediante  i  quali  dare
attuazione alla riduzione della spesa corrente rispetto  agli  organi
di governo e agli apparati amministrativi di propria competenza. 
    Emerge con immediata evidenza l'impossibilita' di ritenere che le
norme  predette  possano  integrare   i   caratteri   del   principio
fondamentale,  stante  la  profonda   incisione   delle   prerogative
costituzionali delle regioni, peggiorata  dalle  gravose  conseguenze
derivanti dal mancato rispetto delle regole  richiamate.  Proprio  la
previsione  di  effetti  fortemente  pregiudizievoli  a  danno  della
finanza  regionale   finiscono   per   accrescere   il   livello   di
vincolativita'  delle  misure  di  contenimento  della  spesa   degli
apparati amministrativi nei confronti delle regioni, riverberando  in
violazione dell'art. 117, comma 3,  Cost.,  nonche'  in  lesione  del
principio di corrispondenza tra le funzioni decentrate e  le  risorse
necessarie a consentire di far fronte  all'esercizio  delle  funzioni
stesse, sancito dall'art. 119, comma 4, Cost. 
    A fronte di questo  ampio  richiamo  ai  principi  costituzionali
elaborati dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte,  non  residua
dubbio alcuno sulla necessita' che le disposizioni  di  principio  in
materia di coordinamento della finanza pubblica  debbano  prescrivere
solo criteri e obiettivi, ma mai porre vincoli specifici  e  puntuali
(sent. n. 159/2008). La legge statale non puo' dunque  «prevedere  in
modo  esaustivo  strumenti  o  modalita'  per  il  perseguimento  dei
suddetti obiettivi» (ex multis, sent. n. 297/2009). Proprio  il  piu'
volte evocato caso relativo alla disciplina delle  comunita'  montane
ha messo in evidenza quali principi di  coordinamento  della  finanza
pubblica le previsioni statali secondo le quali le  regioni  «tengono
conto», tra  l'altro,  dei  principi  di  riduzione  del  numero  dei
componenti  degli  organi  rappresentativi  e  di   riduzione   delle
indennita' ad essi spettanti, limitandosi a  fornire  al  legislatore
regionale solo alcuni «indicatori» non vincolanti.  Spetta  dunque  a
ogni regione contribuire al  contenimento  della  spesa  secondo  una
valutazione operata in piena autonomia (sent. n. 237/2009). Molto  di
recente, infine, codesta ecc.ma Corte ha,  ancora  piu'  chiaramente,
dichiarato illegittimita' di una norma  statale  per  violazione  con
l'art. 117, comma 3, Cost., in quanto contenente «una  disciplina  di
dettaglio ed autoapplicativa che non puo' essere ricondotta all'alveo
dei principi  fondamentali  della  materia  del  coordinamento  della
finanza pubblica, giacche' non lascia alle regioni alcuno  spazio  di
autonoma scelta» (Corte cost. n. 91 del 2011). 
    Del tutto evidente appare quindi  il  contrasto  delle  censurate
disposizioni con gli articoli 117, commi 3 e 4, e 119 Cost. 
    2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 14 del d.l.  n.  138
del 2011, convertito con modificazioni dalla legge  n.  148/2011  per
contrasto con gli artt. 122 e 123 Cost. 
    2.1.  -  L'art.  14  del  d.l.  n.   138/2011,   convertito   con
modificazioni  dalla  legge  n.  148/2011,  appare  in  primo   luogo
costituzionalmente   illegittimo   in   quanto,   condizionando    la
possibilita' per le regioni di vedersi collocate nella classe di enti
territoriali piu' virtuosa ex art. 20, comma 3, del d.l.  n.  98/2011
all'adeguamento dei rispettivi  ordinamenti  ai  parametri  elencati,
finisce in fatto per imporre alle stesse,  laddove  intendano  godere
delle  connesse  misure  premiali,  la  riduzione   o   comunque   il
contenimento del numero dei consiglieri regionali  entro  determinate
soglie  rapportate  alla   popolazione   residente   nel   territorio
regionale, nonche' la riduzione del numero degli assessori regionali. 
    Anche  a   voler   per   il   momento   tralasciare   la   palese
irragionevolezza  ed  inidoneita'  dei  suddetti  parametri  rispetto
all'asserito perseguimento  delle  finalita'  di  contenimento  della
spesa pubblica, non v'e' chi non veda come  la  disposizione  statale
censurata incida gravemente sulla potesta'  riconosciuta  a  ciascuna
regione di disciplinare in  maniera  autonoma  la  propria  forma  di
governo mediante l'adozione del proprio Statuto. 
    Orbene, per quanto riguarda la Regione Lombardia,  nell'esercizio
della  potesta'  di  autonoma  definizione  della  forma  di  governo
regionale ad esso riconosciuta, lo Statuto ha previsto  espressamente
all'art. 12, comma 1, che «il  Consiglio  regionale  e'  composto  da
ottanta consiglieri, fatti salvi gli effetti dell'applicazione  della
legge elettorale». Parimenti, l'art. 27, comma 1, ha fissato a sedici
il numero massimo degli assessori regionali, ai quali si aggiunge  il
Presidente della Giunta. 
    Malgrado in applicazione delle prescrizioni recate dall'art.  14,
comma 1, del d.l. n. 138/2011,  convertito  con  modificazioni  dalla
legge n. 148/2011, il numero dei componenti dei due organi  regionali
rimanga immutato, cio' non  puo'  valere  comunque  ad  escludere  la
profonda  ed  illegittima  incisione   delle   prerogative   che   la
Costituzione rimanda in via esclusiva alla  regione  in  ordine  alla
definizione  della  propria  organizzazione  istituzionale  ai  sensi
dell'art. 123 Cost. 
    Sia consentito rammentare come, a  seguito  della  riformulazione
avvenuta a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione,  il
primo comma dell'art. 123 sancisca ora  espressamente  che  «ciascuna
regione ha uno statuto  che,  in  armonia  con  la  Costituzione,  ne
determina  la  forma  di  governo  e  i  principi   fondamentali   di
organizzazione e funzionamento». 
    Di contro, non essendo piu' prevista l'approvazione dello Statuto
con  legge  della  Repubblica,  ai  sensi  dell'art.  122  Cost.   la
competenza  del  legislatore  statale  in  materia   di   ordinamento
regionale e' ora limitata  alla  sola  predisposizione  dei  principi
fondamentali  in  ordine  al  sistema  di  elezione  e  ai  casi   di
ineleggibilita'  e  di  incompatibilita'   regionali,   ovvero   alla
definizione della durata degli organi  elettivi.  Nessuno  spazio  e'
invece riconosciuto allo Stato in merito  alla  individuazione  della
forma di governo regionale, stante l'assoluta ed esclusiva competenza
dello Statuto sul punto. 
    Del resto, la costante giurisprudenza costituzionale ha da  tempo
riconosciuto  «il  carattere  fondamentale  della  fonte  statutaria,
comprovato dal procedimento aggravato previsto dall'art.  123,  commi
secondo e terzo, della Costituzione» (Corte cost.,  sent.  n.  4  del
2010). A cio' si  aggiunga  che  la  disposizione  costituzionale  da
ultimo richiamata ha espressamente individuato una serie  di  vere  e
proprie riserve normative a favore della fonte statutaria,  sottratte
alla disciplina da parte della legge sia statale che regionale, ed in
particolare alla legislazione in materia elettorale (in tal senso, ex
plurimis, Corte cost., sentt. n. 188 del 2007, n.  272  e  n.  2  del
2004, e n. 196 del 2003). 
    Come espressamente  ribadito  da  codesta  ecc.ma  Corte  in  una
recentissima  pronuncia,  «nell'ambito  di  tali  riserve  normative,
rientra la determinazione del numero dei  membri  del  Consiglio,  in
quanto la composizione dell'organo legislativo regionale  rappresenta
una fondamentale "scelta politica sottesa alla  determinazione  della
forma di governo'' della Regione» (sent. n. 188 del 2011,  e  la  ivi
richiamata sent. n. 3 del 2006). 
    Se, dunque, l'individuazione del numero dei consiglieri regionali
va senza  dubbio  ricondotta  nell'alveo  delle  decisioni  correlate
all'esercizio  da  parte  della  regione  della   propria   autonomia
politico-costituzionale nella  definizione  della  forma  di  governo
regionale, e' immediatamente evidente come  la  disposizione  statale
censurata arrechi un gravissimo vulnus a tale autonomia  nel  momento
in  cui  impone  alla  regione  stessa  di  ridurre  il  numero   dei
consiglieri regionali, condizionando a tale intervento  la  fruizione
di misure premiali di rilievo essenziale per l'economia regionale. 
    Le considerazioni appena svolte valgono, altresi',  a  comprovare
l'illegittimita'  dell'individuazione  del   numero   massimo   degli
assessori regionali da parte dell'art. 14, comma  1,  lett.  b),  del
menzionato d.l.  n.  138/2011.  Atteso  che,  come  si  desume  dalla
giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, la determinazione del
numero dei componenti di un organo necessario della regione non  puo'
che attenere indissolubilmente all'atteggiarsi della forma di governo
della regione stessa, anche la fissazione del numero dei membri della
Giunta regionale non puo' che rientrare  nella  competenza  esclusiva
dello Statuto di autonomia. 
    Del resto, siffatta conclusione trova conferma nell'art. 121, che
annovera tra gli organi necessari  della  regione  anche  la  Giunta,
nonche' nell'art.  122,  comma  5,  Cost.,  che  al  secondo  periodo
espressamente prevede che i componenti della Giunta siano nominati  e
revocati dal Presidente della stessa. Di contro, il  primo  comma  di
tale ultimo articolo limita la potesta' legislativa statale alla sola
predisposizione   dei   principi   fondamentali   in    materia    di
ineleggibilita' e incompatibilita' dei membri di tale  organo  (oltre
che del Presidente e dei consiglieri regionali). 
    2.2. - Il menzionato  art.  14  del  d.l.  n.  138/2011  viola  i
richiamati parametri di cui agli artt. 122 e 123 Cost. anche sotto un
ulteriore profilo, laddove alla lettera e) prescrive, ai  fini  della
collocazione nella classe di enti territoriali piu' virtuosa ex  art.
20 d.l. n. 98/2011, anche la necessaria istituzione  da  parte  delle
regioni di un Collegio  dei  revisori  dei  conti,  quale  organo  di
vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della
gestione  dell'ente,  dettandone  altresi'  in  maniera  compiuta  le
modalita' di composizione ed i requisiti dei membri. 
    Dall'esame  di  tale  previsione  emerge  in  maniera  netta   ed
immediata la manifesta coartazione dell'autonomia  regionale  sancita
dalla Carta costituzionale. Sia consentito rammentare, in tal  senso,
come l'art. 121, comma 1, Cost., individui espressamente quali organi
necessari della regione il Consiglio regionale, la Giunta  e  il  suo
Presidente. A tale elenco, in forza dell'art. 123, comma 4, Cost., si
aggiunge  il  Consiglio  delle  autonomie  locali,  quale  organo  di
consultazione fra la regione e gli enti locali, la cui disciplina  e'
attribuita  alla  competenza  esclusiva  del  legislatore   regionale
statutario. 
    Peraltro, e' dato ormai pacifico che, al di  fuori  degli  organi
sopra richiamati, la cui presenza e' indicata dalla Costituzione come
indefettibile ai fini della  regolare  costituzione  nell'ordinamento
regionale, codesta ecc.ma Corte ha chiarito che non esiste un numerus
clausus di organi regionali. 
    Gia' a partire dalla sentenza  n.  48  del  1983,  nella  vigenza
dell'originario ad. 121,  comma  1,  Cost.  -  la  cui  formulazione,
peraltro, e'  rimasta  invariata  anche  a  seguito  delle  modifiche
apportate dalla L. cost. n. 3/2001 -  il  Giudice  costituzionale  ha
osservato come tale disposizione «non ha  inteso  dettare  un  elenco
esaustivo  degli  uffici  regionali  competenti  ad   adottare   atti
provvisti di rilevanza esterna, ma piu' semplicemente ha indicato gli
organi necessari  dell'ente  in  questione,  risolvendo  pertanto  un
problema attinente alla forma regionale di governo». 
    La possibilita' di istituire altri organi regionali in aggiunta a
quelli costituzionalmente previsti  e'  stata  riaffermata  anche  in
seguito alla riforma del Titolo  V  della  Costituzione.  Particolari
indicazioni  al  riguardo  possono  desumersi  dalla   giurisprudenza
formatasi in ordine all'ammissibilita', nell'ambito  dell'ordinamento
regionale, di collegi di garanzia statutaria. In tal  senso,  codesta
ecc.ma Corte ha ritenuto  compatibile  in  astratto  con  il  dettato
costituzionale la previsione di organi di  garanzia  da  parte  degli
statuti regionali, escludendone la legittimita' solo laddove ad  essi
siano riconosciute  competenze  di  natura  giurisdizionale  (in  tal
senso, Corte cost., sentt. n. 200 del 2008 e n. 378 del 2004). 
    Se, dunque, non pare revocabile in dubbio la possibile previsione
di eventuali  ulteriori  organi  regionali,  allo  stesso  modo  deve
ritenersi indubitabile che la competenza  circa  tale  previsione  e'
integralmente rimessa allo Statuto, che - come visto sub § 1.1. -  si
pone  quale  fonte  fondamentale  e  sedes  materiae   esclusiva   in
riferimento  alla  forma  di  governo  della  regione  e   alla   sua
organizzazione istituzionale. 
    Di contro, nessuno spazio in materia puo' essere riconosciuto  al
legislatore statale, in considerazione  della  circostanza  che,  nel
vigente assetto costituzionale di rapporti tra Stato  e  regioni,  lo
Statuto  regionale  di  autonomia   risulta   tenuto   esclusivamente
all'osservanza della Costituzione, essendo venuto meno il vincolo  di
armonia con  le  leggi  della  Repubblica,  presente  nell'originaria
formulazione dell'art. 123 Cost. 
    Alla  luce  di  tali  considerazioni,  la  disposizione   statale
impugnata  risulta  senza  ombra   di   dubbio   viziata   da   grave
illegittimita' costituzionale. E', infatti, evidente  che,  imponendo
alle Regioni di istituire un organo quale il Collegio dei revisori e,
al contempo disciplinandone  in  maniera  compiuta  le  modalita'  di
composizione ed i requisiti di professionalita'  dei  componenti,  lo
Stato ha illegittimamente invaso le  competenze  regionali,  dettando
disposizioni non riconducibili ad alcun titolo competenziale proprio,
in quanto immediatamente rientranti nella potesta'  statutaria  delle
regioni. 
    Anche sotto tale profilo, pertanto, non  potra'  che  dichiararsi
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 14 del menzionato  d.l.  n.
138/2011, per violazione degli artt. 122 e 123 Cost. 
    3. - Illegittimita' dell'art.  16  del  d.l.  n.  138  del  2011,
convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011,  per  contrasto
con gli articoli 117, commi 3 e 4, e 120 Cost. 
    3.1. - Il d.l. n. 138/2011,  convertito  in  legge  n.  148/2011,
risulta altresi' viziato da illegittimita' costituzionale nella parte
in cui, al primo  comma  dell'art.  16,  dispone  che  i  comuni  con
popolazione fino a 1.000  abitanti  esercitano  obbligatoriamente  in
forma associata tutte le funzioni amministrative e  tutti  i  servizi
pubblici  loro  spettanti  sulla  base  della  legislazione   vigente
mediante un'unione di comuni ai sensi  dell'art.  32  del  d.lgs.  n.
267/2000 (T.U. Enti locali). 
    La    disposizione    statale    impugnata,    infatti,    incide
illegittimamente  sulla  sfera  di  competenze  legislative  che   la
Costituzione riserva alle regione  in  materia  di  disciplina  delle
forme associative degli enti locali presenti sul loro territorio. 
    Ne', del resto,  ad  escludere  l'illegittimita'  dell'intervento
normativo  censurato  potrebbe  invocarsi  la  competenza   esclusiva
statale  ex  art.  117,  comma  2,  lettera  p),  Cost.,  relativa  a
«legislazione elettorale, organi di governo e  funzioni  fondamentali
di comuni, province e citta' metropolitane». Codesta ecc.ma Corte  ha
da tempo chiarito come il suddetto titolo competenziale debba  essere
inteso nel senso che il  riferimento  deve  ritenersi  tassativamente
rivolto agli enti locali elencati  all'art.  114  Cost.,  cosi'  come
tassativo e' il contesto  oggettivo  interessato,  che  si  sostanzia
esclusivamente nella disciplina del sistema elettorale,  della  forma
di governo e delle funzioni fondamentali di detti enti. 
    Di  contro,  al  di  fuori   dell'ambito   materiale   come   ora
circoscritto, la regolamentazione degli enti locali  deve  essere  di
certo ricondotta nella competenza residuale  delle  regioni  ex  art.
117, comma 4, Cost. Cio' anche al fine di garantire  la  possibilita'
che la singola regione,  nel  ruolo  di  ente  rappresentativo  delle
diverse   istanze   presenti   sul   proprio   territorio,   provveda
all'adozione di previsioni  differenziate  che  tengano  in  adeguata
considerazione le esigenze espresse dalla comunita'  di  riferimento,
in  osservanza  dei  principi  di   sussidiarieta',   adeguatezza   e
differenziazione consacrati nell'art. 118, comma 1, Cost. 
    Tali   considerazioni    trovano    conferma    nella    costante
giurisprudenza costituzionale, sviluppatasi in particolare in  merito
alla disciplina delle comunita' montane. E' opportuno precisare  come
alle  stesse  sia  stata  attribuita  la  natura  giuridica  di  ente
autonomo, quali proiezioni dei comuni facenti capo  ad  esse,  ovvero
quali «unioni di comuni, enti locali costituiti fra comuni  montanti»
(Corte cost., sent. n. 244 del 2005, richiamata da ultimo dalla sent.
n. 27 del 2010). 
    In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare che
la  disciplina  delle  comunita'  montane  rientra  nella  competenza
residuale delle regioni (si vedano, in tal senso, sentt. n.  237  del
2009 e n. 456 e n. 244 del 2005). 
    Il riconoscimento della  predetta  potesta'  regionale  esclusiva
trova, in particolare, fondamento nel fatto che tali comunita' devono
essere   identificate   come   autonomie   sub-regionali    meramente
strumentali e non gia' rientranti tra gli enti necessari  sulla  base
di norme costituzionali; alla luce di cio', pertanto, «rientra  nella
potesta' legislativa delle regioni disporne anche, eventualmente,  la
soppressione» (Corte cost., sent. n. 27 del 2010, citata,  e  le  ivi
richiamate sentt. n. 237 del 2009, citata, e n. 229 del 2001). 
    Orbene, non v'e' chi non veda come  i  principi  affermati  dalla
giurisprudenza  di  codesta  ecc.ma  Corte   nelle   pronunce   sopra
richiamate trovino immediata applicabilita'  alla  normativa  statale
della cui legittimita' costituzionale qui si sospetta.  Se  la  ratio
della competenza regionale  in  materia  di  comunita'  montane  deve
essere   rinvenuta   nel   carattere    non    essenziale    e    non
costituzionalmente indefettibile delle  stesse,  non  puo'  dubitarsi
come  nella  suddetta  competenza  vada,  altresi',   ricondotta   la
disciplina delle forme associative di comuni e, in particolare, delle
unioni. Peraltro, e' appena il  caso  di  rammentare  che  lo  stesso
d.lgs. n. 267/2000, all'art. 32, ha espressamente affermato  che  «le
unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o piu' comuni  di
norma  contermini,  allo  scopo  di  esercitare  congiuntamente   una
pluralita' di funzioni di loro competenza» e che  all'art.  33  viene
riservata alle  regioni  l'individuazione  dei  livelli  ottimali  di
esercizio delle funzioni ai fini di favorirne l'esercizio associato e
viene previsto in capo  alle  regioni  l'esercizio  di  un  eventuale
potere   sostitutivo   per   il   caso   di   inerzia   dei    comuni
nell'individuazione di soggetti, forme e metodologie per  l'esercizio
in forma associata delle funzioni. 
    Cosi' correttamente ricostruito il riparto  di  attribuzioni  tra
Stato e regioni in materia, risulta netto  il  contrasto  del  citato
art. 16 d.l. n. 138/2011 con il dettato  costituzionale,  derivandone
di conseguenza la manifesta  violazione  delle  competenze  normative
regionali. 
    3.2. - In via subordinata, nella denegata e non  creduta  ipotesi
in cui codesta ecc.ma Corte non ritenesse di riconoscere la manifesta
violazione della competenza  residuale  della  Regione  Lombardia  in
merito alla disciplina delle forme  associative  degli  enti  locali,
l'impugnato art. 16 risulta in ogni caso collidere con le  competenze
normative riconosciute alle regioni dai commi 3  e  4  dell'art.  117
Cost., nonche' con il principio fondamentale di leale collaborazione,
sancito dall'art. 120 Cost. 
    In particolare, nella misura in cui la norma statale prescrive ai
comuni interessati  l'esercizio  «in  forma  associata  di  tutte  le
funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro  spettanti
sulla base della legislazione vigente», essa viola in maniera  palese
il riparto costituzionale di potesta' legislative tra Stato e regioni
in materia di disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative
da parte degli enti locali. 
    Sia consentito rammentare come, ai  sensi  dell'art.  118  Cost.,
nella  formulazione  successiva  alla  riforma  del  Titolo  V  della
Costituzione, sono attribuite in via di principio ai comuni tutte  le
funzioni amministrative, a prescindere dalla materia cui afferiscano,
salvo la possibilita' che le stesse siano conferite, sulla  base  dei
principi  di  sussidiarieta',  differenziazione  e  adeguatezza,   ai
livelli di governo superiori,  al  fine  di  garantirne  il  migliore
esercizio. 
    Pare, altresi', opportuno ribadire che, in forza del citato  art.
117, comma 2, lettera p), Cost., la competenza legislativa  esclusiva
dello Stato inerisce ora alla  determinazione  delle  sole  «funzioni
fondamentali» di comuni, province e citta' metropolitane. 
    Nell'interpretare  il  rapporto   tra   le   rinnovate   potesta'
legislative regionali risultanti dall'art. 117, come riformato  dalla
Legge cost. n. 3/2001 e l'art. 118 Cost.,  codesta  ecc.ma  Corte  ha
chiaramente affermato che «quale che debba ritenersi il rapporto  fra
le "funzioni fondamentali'' degli enti  locali  di  cui  all'articolo
117, secondo comma, lettera p), e le "funzioni  proprie''  di  cui  a
detto articolo 118, secondo comma, sta di fatto che sara'  sempre  la
legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle  competenze
legislative, a operare la concreta collocazione  delle  funzioni,  in
conformita' alla generale attribuzione costituzionale ai comuni o  in
deroga ad essa per esigenze di "esercizio unitario'', a livello sovra
comunale» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). 
    Pertanto, alla luce  dei  principi  desumibili  dalla  richiamata
giurisprudenza, non e' revocabile in dubbio come la competenza  della
regione  in  materia  di  disciplina  dell'esercizio  delle  funzioni
amministrative sussista ogni qualvolta le funzioni stesse interessino
ambiti  materiali  di  diretta  pertinenza  regionale  (esclusiva   o
concorrente). 
    Di contro, la  censurata  disposizione  statale  ha  inteso  fare
riferimento indistinto a tutte le funzioni amministrative attualmente
esercitate dai comuni  interessati.  Cosi'  facendo,  il  legislatore
statale ha sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in  ambiti
materiali  regionali,  violando   in   tal   modo   le   attribuzioni
costituzionalmente garantite alla regione. 
    In aggiunta, alla  luce  delle  evidenti  attribuzioni  regionali
sottese allo svolgimento delle funzioni comunali, non e'  rinvenibile
nel corpo dell'impugnato art. 16 alcuna  forma  di  cooperazione  fra
Stato e regioni, idonea  a  garantire  una  tutela  delle  richiamate
competenze regionali. 
    Questa difesa certo non ignora l'orientamento di  codesta  ecc.ma
Corte alla stregua per il quale il principio di leale  collaborazione
non trova applicazione nelle procedure di formazione delle leggi  (ex
multis cfr. Corte cost., sentt. n. 33 del 2011 e n.  326  del  2010).
Tuttavia, pare opportuno richiamare che, a fronte  di  un  intervento
normativo di tale portata, promosso  attraverso  lo  strumento  della
decretazione   d'urgenza,   giustificato   in   nome   di    esigenze
straordinarie  di  contenimento  della  spesa,  che  potrebbe   quasi
ricondursi nell'abito di una procedura «sostitutiva» rispetto  ad  un
impegno regionale ritenuto inadeguato nel  contenimento  della  spesa
pubblica, sarebbe stata costituzionalmente necessaria la salvaguardia
del principio di leale collaborazione  di  cui  all'art.  120  Cost.,
quale principio «operante piu' in  generale  nei  rapporti  fra  enti
dotati di autonomia costituzionalmente garantita» (Corte cost., sent.
n. 43 del 2004), che «viene in particolare evidenza in  ogni  ipotesi
... nelle  quali  non  sia  (eccezionalmente)  applicabile  l'opposto
principio della separazione delle sfere di attribuzione (v. sentt. n.
153 e n. 294 del 1986).  E  fra  queste  garanzie  deve  considerarsi
inclusa l'esigenza del rispetto di una regola di proporzionalita' tra
i  presupposti  che,  nello   specifico   caso   in   considerazione,
legittimano l'intervento sostitutivo e il  contenuto  e  l'estensione
del relativo potere, in mancanza della  quale  quest'ultimo  potrebbe
ridondare in un'ingiustificata compressione dell'autonomia  regionale
(v. sentt. n. 177 e n. 294 del 1986)» (Corte cost. n. 177 del 1988). 
    In definitiva,  la  mancata  previsione  di  qualsivoglia  spazio
cooperativo con la regione nella ridefinizione  di  ambiti  non  solo
territoriali ma anche istituzionali come operata dall'impugnato  art.
16 non puo' che  ridondare  in  violazione  del  principio  di  leale
collaborazione, in aperto contrasto con l'art. 120 Cost. 
    4. - Illegittimita' dell'art.  16  del  d.l.  n.  138  del  2011,
convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011,  per  contrasto
con l'art. 133, comma 2, Cost. 
    L'art. 16 risulta, altresi', gravemente illegittimo  nella  parte
in cui prevede l'istituzione di un ulteriore ente locale  coincidente
con la sostanziale fusione dei comuni partecipanti,  senza  osservare
la procedura delineata  dall'art.  133,  comma  2,  Cost.,  il  quale
riconosce in capo al legislatore regionale,  sentite  le  popolazioni
interessate, la competenza in materia di istituzione di nuovi  comuni
e di modificazione delle circoscrizioni  e  denominazioni  di  quelli
gia' esistenti. 
    Come gia' ampiamente  ricostruito  nella  parte  in  «Fatto»,  la
disposizione censurata prevede espressamente l'obbligo per  i  comuni
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti di  costituire  unioni  ai
sensi  dell'art.  32  del  d.lgs.   n.   267/2000.   Secondo   quanto
espressamente  affermato  dal  legislatore  statale,   tale   obbligo
risponderebbe,  tra  l'altro,  anche  alla  garanzia  del   «migliore
svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici». 
    Peraltro, malgrado le premesse suddette, lungi dal configurare le
predette unioni quali  mere  forme  associative  volte  all'esercizio
congiunto di talune  specifiche  attribuzioni  da  parte  dei  comuni
interessati, il menzionato  art.  16  prevede  l'istituzione  di  una
struttura istituzionale stabile ed omnicomprensiva, dotata di  propri
organi, di autonomia statutaria e di specifici poteri precedentemente
esercitati  dagli  organi  comunali.  Tale  nuovo  ente   locale   si
sostituisce integralmente agli enti partecipanti, come comprovato  in
primo luogo dalla circostanza che ad esso  e'  demandato  l'esercizio
della totalita' delle funzioni amministrative e dei servizi  pubblici
ai primi spettanti. 
    La completa sostituzione delle unioni ai singoli comuni associati
trova espressa conferma nel comma 5 della disposizione  impugnata,  a
norma della quale «l'unione succede a tutti gli effetti nei  rapporti
giuridici  (...)  inerenti  alle  funzioni  ed  ai  servizi  ad  essa
affidati», con contestuale trasferimento di tutte le relative risorse
umane e strumentali. Come si desume dalla lettura integrata  di  tale
previsione con quella di cui al comma 1, la  successione  dell'unione
ai comuni riguarda i rapporti giuridici inerenti  tutte  le  funzioni
amministrative e tutti i servizi pubblici spettanti ai comuni. 
    Ma vi e' di piu'. Oltre  al  conferimento  al  nuovo  ente  della
totalita'  delle  funzioni  comunali,  allo  stesso  viene   altresi'
riconosciuta un'autonoma struttura  organizzativo-istituzionale,  che
finisce per  subentrare  ed  assorbire  quelle  dei  singoli  comuni.
Sintomatica,  in  tal  senso,  e'  la  previsione  che,   a   partire
dall'istituzione delle unioni, le giunte comunali in carica  decadono
di diritto, senza successiva ricostituzione: il novero  degli  organi
comunali viene limitato, infatti,  esclusivamente  al  sindaco  e  al
consiglio. 
    Peraltro, pur non essendo oggetto  di  espressa  soppressione  al
pari  delle  giunte,  tali  ultimi  organi  subiscono   comunque   la
significativa riduzione delle proprie potesta'. In particolare,  come
riconosciuto  dal  comma  9  dell'articolo  impugnato,  ai   consigli
comunali competono esclusivamente poteri di indirizzo  nei  confronti
del consiglio dell'unione. La norma afferma, poi, la permanenza delle
funzioni normative spettanti in  riferimento  alle  attribuzioni  non
esercitate mediante l'unione;  peraltro,  tale  precisazione  risulta
ultronea e priva di contenuto, alla luce del conferimento  all'unione
della totalita' delle attribuzioni finora esercitate. 
    Per quanto attiene ai sindaci, a norma del comma 12 dell'art.  16
spettano ad essi le sole attribuzioni di cui all'art.  54  d.lgs.  n.
267/2000, ovvero solamente quelle attribuzioni esercitate dai sindaci
in veste di ufficiali del Governo, non gia'  in  qualita'  di  organi
apicali,   rappresentativi   e   responsabili    dell'amministrazione
comunale. 
    Di contro, l'Unione delineata dall'art. 16 del d.l.  n.  138/2011
viene dotata di una propria  organizzazione  organica,  composta  dal
consiglio, dal presidente e  dalla  giunta,  nonche'  del  potere  di
dotarsi di un proprio statuto al fine di disciplinare le modalita' di
funzionamento dei propri organi e i loro rapporti. 
    Alla luce  della  ricostruzione  appena  operata  dell'intervento
normativo censurato, non  v'e'  chi  non  veda  come  il  legislatore
statale abbia inteso procedere alla sostanziale  fusione  dei  comuni
con popolazione inferiore  a  1.000  abitanti,  eludendo  in  maniera
manifesta la procedura di cui all'art. 133, comma 2, Cost. 
    Come si e' gia' avuto modo di  osservare,  tale  ultimo  articolo
prevede che «La regione, sentite le popolazioni interessate, puo' con
sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi comuni e  modificare
le loro circoscrizioni e denominazioni». 
    Come costantemente  riconosciuto  da  codesta  ecc.ma  Corte  sul
punto, «spetta alla legge regionale  dare  attuazione  all'art.  133,
secondo  comma,  della  Costituzione,  individuando  le   popolazioni
interessate   alla   variazione   territoriale;   che    e'    sempre
costituzionalmente obbligatoria la  consultazione  delle  popolazioni
residenti nei territori che sono destinati a  passare  da  un  comune
preesistente ad uno di nuova istituzione, ovvero ad un  altro  comune
preesistente» (Corte cost., sent. n. 47 del 2003). 
    Nel caso di specie,  invece,  nessuna  delle  fasi  espressamente
individuate dalla Costituzione ha trovato  osservanza  da  parte  del
legislatore statale, il quale per  di  piu'  e'  intervenuto  in  una
materia sottratta alla propria sfera di competenza normativa. 
    Ne'  valga  a  condurre  a   diversa   conclusione   la   mancata
soppressione dei comuni obbligatoriamente partecipanti  alle  unioni.
Se, infatti, da un  punto  di  vista  puramente  formale,  tali  enti
rimangono in essere, non e' revocabile  in  dubbio  come,  alla  luce
delle inequivoche previsioni di cui all'art. 16, gli stessi siano  di
fatto costretti a fondersi in un ente territoriale  istituzionalmente
nuovo  e  diverso,  al  quale  viene  conferita  la  totalita'  delle
attribuzioni precedentemente svolte a livello comunale. 
    Anche sotto tale ulteriore profilo, il  menzionato  art.  16  del
d.l.  n.  138/2011,  convertito  con  modificazioni  nella  legge  n.
148/2011,   risulta   costituzionalmente   illegittimo,   in   quanto
manifestamente contrastante con la sfera di attribuzioni riconosciuta
alla Regione Lombardia.